Dalmine: piccolo mondo antico
- Myriam Poli
- 30 mag
- Tempo di lettura: 8 min

Immagina una cittadina di provincia come tante. Immaginane una dal nome familiare, ma alla quale non sapresti associare una storia. E immagina di imbatterti in quella storia e accorgerti che ignoravi completamente che, a pochi passi da casa tua, fosse esistito un piccolo mondo antico, dinamico e incredibilmente produttivo: una sorella più recente di quella Crespi d’Adda che s’incontra un po’ più in giù, seguendo il corso del vicino fiume Brembo.
Queste erano le mie esatte sensazioni quando ho conosciuto Dalmine: un mondo sorto dal nulla e presto entrato magistralmente nel flusso della Storia, diventandone protagonista. A dare forma a questo racconto, una figlia di questa città, Sara Asperti: la sua duplice “essenza” di guida turistica, da un lato, e di testimone diretta degli ultimi capitoli della storia dalminese, dall’altro, rendono Sara una compagna di viaggio d’eccezione. Un viaggio che è in programma la sera di venerdì 20 giugno insieme a Sara e alla Margì, e di cui vorrei darti un assaggio.
Dalmine: in principio fu il vuoto
Ebbene, dove oggi sorge il centro di Dalmine, fino a un centinaio di anni fa non c’era nulla, fuorché una distesa di terreni, adibiti a uso agricolo sin dai tempi dei romani; romani e celti hanno invece abitato le zone tutt’intorno, da cui ha preso vita una serie di piccoli paesi.
È il 1908: quest’area verde, grande e pianeggiante, viene adocchiata da una società tedesca, alla ricerca di un sito produttivo per espandersi in Italia. La sua specializzazione è il prodotto tubolare senza saldatura, tutt’oggi elemento trainante di quella che è poi divenuta la celebre “Dalmine”, ora parte del gruppo Tenaris. Parliamo del maggior produttore e fornitore, a livello globale, di tubi in acciaio e di servizi destinati all’industria energetica e altre applicazioni industriali specialistiche.
Così, quel vuoto tra paesi viene man mano colmato da un’immensa acciaieria, che mette progressivamente in atto un progetto di company town, ovvero un “villaggio operaio” corredato di servizi pensati per i dipendenti della fabbrica.
Nasce dunque in questo modo la giovane Dalmine, e vent’anni dopo, elevata al rango di comune, raccoglie sotto di sé gli antichi paesi che l’abbracciavano attorno, che ne diventano frazioni. L’epoca fascista, cruciale nella storia dalminese, è nota per queste “fusioni” di centri e paesi che hanno dato vita a città più grandi – inconfutabile è il rapporto ossessivo che il regime ebbe con l’idea di grandezza.
Il progetto di company town di Dalmine

E non è un caso che quel centro sorto dal nulla, impastato di ambizioni grandiose, sia divenuto una delle punte di diamante della propaganda di regime. Nomi rilevanti del panorama artistico vengono incaricati di operare in Dalmine: in particolare, il progetto di company town è affidato all’architetto Giovanni Greppi, esponente del Novecento, movimento artistico d’avanguardia, e dunque frequentatore del salotto di Margherita Sarfatti, influente intellettuale nonché celebre amante del Duce.
La voce di Sara mi “accompagna” per le vie di Dalmine: tutt’ora è possibile imbattersi in tutta una serie di edifici nati con funzioni diverse, ma che conservano testimonianza delle funzioni antiche, nonché sopravvissute tracce fasciste, che non sfuggono a un occhio attento. La fabbrica, incarnazione del lavoro, è il centro ideale e assoluto della company town, la quale si sviluppa su un’area vastissima: la fabbrica fa da spartiacque, al centro, tra il quartiere “Mario Garbagni” – dal nome dell’allora presidente della Dalmine – destinato alle famiglie degli operai, e il “Leonardo da Vinci”, con le villette degli impiegati e dei dirigenti. Due aree ben distanziate, realizzate non a caso agli antipodi.
In quello che fu il quartiere riservato ai ceti più alti ha oggi sede la Fondazione Dalmine, nata negli ambienti di quella che fu la pensione per i tecnici non residenti in città. Presentandosi allo sguardo esterno, questi luoghi sono rimasti come allora, e testimoniano anche l’evoluzione artistica di chi li ha creati: la palazzina in questione, infatti, prima realizzazione di Greppi, svela tratti art decò, ben distanti dal Razionalismo che ispirerà le successive realizzazioni dalminesi dell’architetto, nei pieni anni Trenta.

A metà strada tra i due quartieri, esattamente dinnanzi alla facciata della fabbrica, la chiesa parrocchiale, dedicata a San Giuseppe, patrono – non a caso – dei lavoratori. Ingenuamente, ci si aspetterebbe un luogo neutrale. Sara invece mi fa osservare come essa non segua l’orientamento canonico est-ovest, ma sia rivolta esattamente verso la fabbrica. La cosa non sorprende: sorge su terreni di proprietà della Dalmine ed è stata costruita con i suoi stessi finanziamenti, non soltanto a spese della comunità.
Anche la fede “si piega” alla fabbrica, in questa città, e c’è dell’altro: la facciata ci informa sull’anno di consacrazione, il 1930, ma occorre fare due calcoli per intenderlo, perché è indicato come l’VIII anno dell’era fascista. E, a coronamento di tutto, al duce del fascismo potrebbero ricondurre anche le fattezze di un profeta dipinto all’interno della chiesa.
Perché tutto, in Dalmine, prima ancora di essere subordinato alla fabbrica, è necessariamente subordinato al regime. Le vie principali del nuovo centro cittadino vengono direzionate verso le palazzine dirigenziali della fabbrica, ed è proprio uno fra i dirigenti che viene eletto podestà – la figura che in epoca fascista è posta a capo del governo di un comune – sancendo una commistione politica, amministrativa e industriale assoluta. Quando il duce giunge in visita alla company town, evidentemente, è dal balcone della fabbrica che tiene i suoi discorsi. Discorsi che vengono incisi sui monumenti in centro città e studiati sui libri di scuola. Storia nota, in ogni angolo d’Italia. E nonostante quanto venga affermato in propaganda, a Dalmine, città operaia, la maggior parte delle persone è di tutt’altra idea rispetto a quanto viene declamato da quel balcone.

Parlando proprio di loro, le persone che vivevano questi luoghi, Sara segue una sua mappa mentale e ripercorre quella dei suoi ricordi: dove oggi c’è la biblioteca di Dalmine, nei pressi della grande mole della fabbrica, sorgeva la mensa destinata agli operai, e non lontano vi era il Dopolavoro, che oggi ospita alcuni uffici comunali – è proprio il Comune di Dalmine, infatti, ad aver acquisito la proprietà della gran parte degli edifici.

E ancora, servizi di prim’ordine erano stati pensati per i figli degli operai: le scuole e l’asilo, con l’alloggio delle suore annesso, piscine, campi da tennis, un velodromo. Gli impianti sportivi sono tutt’ora attivi, seppur costruiti nel lontano progetto di company town, e la stessa Sara ne ha usufruito spesso. In particolare, da figlia di un operaio della Dalmine, non ha mancato un’estate in colonia, come centinaia di bambini dalminesi prima di lei, ma soprattutto conserva vivissimo un ricordo: la visita in acciaieria che veniva omaggiata agli studenti più diligenti, con annessa borsa di studio fornita dall’azienda, per assistere alla colata di un tubo della Dalmine. Un momento intriso d’incanto e di orgoglio per un giovane membro di quella comunità. Erano già gli anni Ottanta, e seppur quella dimensione locale, comunitaria, andava via via mutando, aveva messo radici profonde.

Ancora oggi, che l’azienda ha acquisito un respiro sempre più internazionale, pur lavorando su scala globale da tempo, gli oggetti legati alla Dalmine conservati nelle case hanno un’aura di quasi sacralità. L’uniforme che Sara custodisce del suo papà non è soltanto un’uniforme: è una “passaporta” che sprigiona ricordi legati un intero mondo.
E quel piccolo mondo, che si tratti di ricordi personali o di ricordi tramandati, rammenta bene ancora oggi il momento in cui si è stati tutti uniti per far fronte al peggiore dei drammi.
I bombardamenti del ’44 sconvolgono la comunità di Dalmine
La sirena che sanciva l’inizio del turno di lavoro per i dipendenti della fabbrica, alle sei esatte del mattino, Sara ricorda di averla sentita per diversi anni, quando era più giovane. Oggi, che questo “rituale” non esiste più, il suono di una sirena irrompe in Dalmine soltanto in un’occasione precisa, rievocando un ricordo straziante. Accade ogni 6 luglio alle 11.02, per rinnovare la memoria di un tragico bombardamento, abbattutosi sulla fabbrica nel 1944, segnando profondamente la memoria collettiva dalminese.
All’epoca, la fabbrica è al servizio del Reich. L’anno precedente, l’Italia aveva firmato l’armistizio, ma la fine delle ostilità sarebbe stata ancora ben lontana. Gli Alleati individuano diversi obiettivi industriali, militari e civili per indebolire i tedeschi, e la fabbrica di Dalmine viene inclusa tra questi.
Da Milano, sede del comando militare tedesco, non arriva tuttavia nessun allarme che avverta gli operai di lasciare la fabbrica, forse perché il momento era concitato e vi erano altri bombardamenti in atto da dover segnalare, o forse, come valutò qualcuno con amarezza, per impedire che si fermasse la produzione.
Settantasette tonnellate di materiale esplosivo si abbattono sulla fabbrica per quattro minuti ininterrotti, sconvolgendone interi ambienti, già resi incandescenti da forni e da acciaio liquido, e trascinando le abitazioni vicine. Si contano 278 morti e circa 800 feriti, ma è un’intera comunità a essere stata annientata: tante famiglie perdono più di una persona – alla Dalmine lavorava la città intera, senza contare coloro che vi arrivavano dalle zone limitrofe. Le salme vengono ricomposte in chiesa, luogo dove tutt’ora molti dalminesi non mettono piede, per la memoria straziante di quei momenti.
Quelle ore raccontano di una prova di grandissima solidarietà, non soltanto all’interno della comunità, ma anche dai paesi vicini, da cui si avvia un’importante mobilitazione verso Dalmine. È soprattutto in tempi di grande patimento che si dimentica la parola indifferenza e si resta, semplicemente, umani. Sara mi riporta una testimonianza: l’esplosione fu tanto dirompente che dalle mura di Città Alta, a Bergamo, si vide bene quell’enorme nube di fumo; l’autista di un gerarca, un individuo fra tanti, in attesa fuori dal Seminario, pur non sapendo cosa stesse accadendo comprese la portata dell’accaduto e corse immediatamente a prestare soccorso. Con quell’auto, dunque, non riportò a casa il gerarca, ma trasportò diverse salme di operai fuori dalla fabbrica, tra le braccia di chi le avrebbe piante.
Fatalmente, esattamente l’anno precedente, nel quartiere operaio e in quello impiegatizio erano stati realizzati due rifugi antiaerei, per proteggere la popolazione nell’eventualità di una circostanza simile.

Un luogo dove il passato è presente
È attorno alla metà degli anni Novanta che quel piccolo mondo antico comincia ad assumere una fisionomia nuova: l’intera città, fino a quel momento di proprietà della fabbrica, viene progressivamente venduta, e oggi la maggior parte delle case operaie appartiene a privati. In molte di quelle case, però, rimangono oggetti e testimonianze del lavoro in Dalmine, rimangono ricordi, anche tragici. In città restano ancora le grandi e numerose pensiline dei pullman, che ogni mattina accoglievano migliaia e migliaia di operai dalla val Brembana. Resta, imponente, l’architettura razionalista, con segni impossibili da cancellare.
E resta soprattutto, ancora attiva, la Dalmine: tutti i tubi presenti in città sono in acciaio, e sono nati in quei forni. Ma la storia prosegue: qui è sorto il campus ingegneristico dell’Università di Bergamo, un ponte verso il futuro, la naturale evoluzione di questo immenso progetto. E, al centro della città, c’è ancora un’antenna, celeberrima, monumento al lavoro: ma oggi quella piazza, che all’epoca era stata consacrata all’Impero, si chiama piazza della Libertà.

Sono grata a Sara per avermi accompagnata così a fondo nella sua città, e sono felice di segnalarti che questo viaggio potrai presto compierlo anche tu, proprio tra le strade parlanti di Dalmine: venerdì 20 giugno alle 19 è in programma un tour organizzato dalla Margì in collaborazione con Sara Asperti, dove ascoltare queste storie e poterle toccare con mano. Il mio consiglio più sincero è quello di non mancare!
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